Giampiero Solari: in cerca del racconto

Tivù intervista a Giampiero Solari, direttore artistico di show quali Stasera pago io e Il più grande spettacolo dopo il weekend di Fiorello
Torno Sabato, lo show Rai di Giorgio Panariello di cui Giampiero Solari ha curato la direzione artistica (©USRai)

Da dove arriva la visione di un direttore artistico?
Tutto dipende da cosa si vuole comunicare al pubblico. Per quel che mi riguarda l’elemento fondamentale è la positività, riuscire a comunicare un senso di gioco e un’emozione. Poi si sceglie lo spazio, che deve essere giusto per il messaggio. La dimensione influenza perché, se è dispersivo, se è all’aperto o se è al chiuso condiziona le modalità espressive, come l’elaborazione dell’immaginario, la rappresentazione visiva che ne diventa la “firma” unica. Oggi purtroppo è venuta a mancare la cultura, è come se fosse crollata la necessità di comunicare e di conseguenza la ricerca sulle forme migliori per farlo. Un esempio su tutti, come illuminare gli artisti o il pubblico. Sono stato uno dei primi che, con Celentano (Francamente me ne infischio, 1999) ha scelto di togliere la luce sul pubblico per giocare con i controluce, che diventavano oggetti di scena tri- dimensionali. Nei format di oggi è tutto illuminato, non ci sono spessori, né forme, è tutto piatto.

Cambia il livello di attenzione del pubblico, quindi si cerca più l’effetto “wow!” anziché l’introspezione?
Più che sull’introspezione si punta sulla distrazione. E non si creano nemmeno più le profondità. Anche l’uso esasperato della tecnologia a volte va a coprire una mancanza di visione, di capacità creativa. Non sono contrario, ovviamente alla tecnologia, ma deve essere un qualcosa in più non un riempitivo. Per comunicare davvero ci vuole soprattutto concentrazione, chiarezza, ispirazione, e poco altro.

Secondo lei, è il mezzo che incide sul modo di fare spettacolo di ieri e oggi?
Incide il mezzo, ma anche il rap- porto con la produzione. Nella mia carriera sono stato formato da persone che tenevano a tutto questo. Personalmente sono partito dal teatro anche quando mi sono trovato a dirigere format live per la tv. Abbiamo fatto sempre prove con il pubblico, anche di frammenti di quello che sarebbe stato lo spettacolo, o dei mono- loghi, e in questo riuscivamo a risparmiare settimane quando si trattava di montare lo show completo. E a quel punto avevamo già la scansione precisa dei tempi per capire dove inserire le pubblicità e le interruzioni, lo spettacolo era già costruito per la messa in onda.

Mi sta descrivendo una modalità più artigianale e sartoriale rispetto a una certa standardizzazione che si osserva mediamente nei format tv.
Era completamente un’altra modalità di lavoro, e a mio parere questa è la modalità professionale. Oggi lo spettacolo è concepito più come un prodotto che come un unicum. Purtroppo, molti vengono dal format e in quanto genere di spettacolo i format hanno il difetto di tendere all’appiattimento. Quando ho lavorato a X-Factor si studiavano le varie versioni nel mondo, si tenevano riunioni per capire quali fossero gli elementi di novità da proporre. In studio abbiamo giocato con l’illuminazione per creare nel pubblico l’illusione di trovarsi nel banco dei giudici, sono bastati due led, ma posizionati nel modo giusto.

Quanto contava l’idea del pubblico a casa nella sua direzione artistica?
Moltissimo, perché l’elemento fondamentale è il racconto. È come se raccontare non interessi più. E non sto parlando del moderno storytelling, rapido e d’effetto, ma di un racconto comunque emozionale, creativo, di storie che nascono sul momento. Era questo il senso di mettere in scena artisti come Lucio Dalla, Morandi, De Gregori, Dario Fo. Entravamo nel cuore delle storie, non era solo per far cantare la canzone. Si cercava qualcosa di diverso, non una replica di ciò che si sapeva già che sarebbe piaciuto al pubblico.

Lei parla con molta nostalgia di queste sue esperienze, ritiene che sia finita un’epoca?
Adesso lavoro in una scuola di teatro a Pesaro e cerco di comunicare questo. Confesso che non cerco la tv, e se la tv mi cerca vuol dire che ha bisogno di quello che posso dare. Ma è molto difficile far entrare la mia modalità creativa in un sistema di produzione che monta una puntata ogni tre giorni. Ricordo un’intervista che mi è rimasta nel cuore con il grandissimo Antonello Falqui, che mi diceva che un balletto lo montava in tre mesi: io ci mettevo una settimana, ma dovevamo avere le idee già chiare e un contenitore già delineato. A dicembre scorso con Ale e Franz abbiamo portato in scena un contenitore che riprendeva e raccontava la loro Milano attraverso i momenti della loro carriera, la musica di Paolo Jannacci, gli ospiti in studio (Rai2, dicembre 2023, ndr.). Ma sapevamo cosa volevamo raccontare. Invece oggi c’è molta chiarezza sulle attrezzature, dai proiettori ai led, e molto meno su cosa ci si può e vuole realizzare.

Dipende dal pubblico o dall’industria la tendenza che rileva di “appiattimento” sul format? E che succederà tra 10 anni?
L’appiattimento dipende dalla mancanza di necessità. La televisione non è esigente, segue le mode. Chissà se ci sarà la tv tra 10 anni, con la tecnologia che sta esplodendo sui media, l’intelligenza artificiale e il 3D. In teatro ho usato spesso il 3D, ma per creare effetti unici che vivevano del momento, ologrammi che prendono corpo sulla scena con il protagonista. Si può innovare con la tecnologia rimanendo comunque creativi e originali, l’effetto non deve prevalere sulle intenzioni, sul racconto. Altrimenti il direttore artistico diventa sostanzialmente un personaggio di potere, un orchestratore di mezzi, che abbia rapporti con la produzione e con la politica, sempre più direttore e sempre meno artista.

Qual è la giusta distanza di un direttore artistico rispetto ai talent con cui lavora?
Più che di distanza parlerei di atteggiamento, io parto sempre dall’ascolto. Ascolto la persona con cui sto lavorando perché da lì viene fuori l’anima e cose che neanche immagina di avere den tro. È stato così anche con Giorgio Panariello (Torno Sabato, Il cielo è sempre più blu). Qualcuno che ti aiuta proprio a tirar fuori il cuore più segreto, è così che deve essere un direttore artistico.

Qual è l’insegnamento che vorrebbe lasciare agli studenti che segue?
La scuola è a Pesaro, quindi abbastanza a margine dei grandi circuiti di produzione, cosa che la salva da certi meccanismi, c’è più libertà. I giovani devono sentire la necessità di essere originali e creativi, e ci sono tanti che si esprimono in modo unico, con curiosità. Ma non è la cultura dei format che può consentire di esplorare, di approfondire e creare veramente in tre dimensioni. (di Maria Pierangeli)

L’articolo completo è stato pubblicato su Tivù di luglio/agosto  2024, scarica il numero o abbonati qui 

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