Branded Content: l’evoluzione continua

È il rapporto di fiducia tra tv, inserzionisti e pubblico a definire lo stato di buona salute del mercato Brand Entertainment. Tra attenzione ai budget e l’emergere di nuoce modalità di comunicazione – a partire dalla influencer economy –, questo rapporto va coltivato costantemente. Come confermano le migliori best practice
Anna Vitiello, direttrice scientifica di OBE

Interruzione o integrazione? È il “dilemma” commerciale che interroga, con sempre più insistenza, gli inserzionisti pubblicitari. Perché se è vero che i tagli agli investimenti, l’esplosione dell’influencer economy e il dibattito sulla reale efficacia dell’adv blocking spingono verso una crescente integrazione tra contenuti e pubblicità, la strada del Brand Entertainment presenta ancora diverse luci e ombre. A restituire lo sfaccettato scenario sono gli stessi numeri. Da un lato, infatti, stando alla prima proiezione dei dati 2023 anticipata nel corso della decima Assemblea Annuale dei soci di OBE – Osservatorio Branded Entertainment (il quadro completo lo si avrà solo nei prossimi mesi), l’anno scorso il BE* ha attirato 650 milioni di euro di investimenti, contro i 619 milioni del 2022. Dunque, stiamo parlando di un mercato in buona salute, in crescita del +6%, tanto che 8,4 marchi su dieci hanno dichiarato di aver realizzato almeno un progetto di brand content. «Il suo grande vantaggio è l’efficacia», spiega Erik Rollini, consigliere OBE e Managing Director EssenceMediacom, «se è ben riuscito, a parità di testa contattata il BE funziona meglio dello spot perché genera delle reazioni più profonde nello spettatore. Per conquistare l’attenzione del pubblico, oggi più che mai è rilevante essere all’interno del mondo dell’intrattenimento». Negli ultimi anni si è rafforzato il rapporto di fiducia tra produttori, committenti e marchi, attirati anche dalla possibilità di trasformare la propria partnership in un modello di finanziamento alternativo a quello tradizionale. La sponsorizzazione andrebbe infatti a colmare quel vuoto di investi- menti lasciato sul campo dagli annunciati tagli delle piattaforme streaming. Là dove non arriva lo streamer, ci penserebbe la marca. NDR. I dati Obe includono nel BE (Brand Entertainment) sia il product placement che i programmi di brand entertainment puri, realizzati e ideati con i brand

LE CRITICITÀ
Come è emerso anche nel corso dell’ultimo MipTv, più di un osservatore sta facendo notare che il branded entertainment non è una soluzione rapida agli attuali problemi di investimento delle società. Le ragioni sono molteplici. La prima è proprio la difficoltà di progettazione che sta alla base dei contenuti. Il BE è una macchina molto complessa: le società di produzione devono interloquire con due soggetti diversi, coordinando le loro rispettive esigenze. A fronte di un obiettivo comune (far funzionare il programma, ottenendo visibilità e alti ascolti), il marchio vuole promuovere i propri valori in continuità con la comunicazione portata avanti finora, ottenendo al contempo un posizionamento prestigio- so all’interno del palinsesto e concordando una vantaggiosa offerta commerciale, mentre l’editore ha bisogno di contenuti che siano attraenti per l’audience nonché coerenti con la propria linea editoriale. A questa dialettica si aggiungono poi le richieste della concessionaria e anche dell’agenzia pubblicitaria, se non addirittura di un secondo o terzo brand: negli ultimi tempi sta prendendo piede la sinergia tra mar- chi che si uniscono per dare vita a progetti comuni. «C’è dunque un tema di equilibri molto complesso da affrontare», sottolinea Anna Vitiello, direttrice scientifica di OBE, «la filiera del BE si basa sul lavoro di squadra rivelandosi molto più complessa sia della filiera dell’adv che di quella del- lo stesso entertainment». Il che porta con sé anche un problema di competenze: affinché l’integrazione tra pubblicità e contenuto narrativo avvenga in maniera efficace, è importante che tutte le figure coinvolte abbiano una professionalità che spazi dallo storytelling al marketing. A differenza dello spot, infatti, il contenuto esula dall’affollamento pubblicitario e deve avere tutti i crismi di un appuntamento editoriale. «C’è poi un problema di audience», continua Vitiello. Nel momento in cui si inserisce un prodotto all’interno di un format già esistente, si sa esattamente il bacino d’utenza che si andrà a intercettare. Nel caso del brand entertainment, invece, le previsioni potrebbero essere smentite dall’Auditel, visto che si tratta di un contenuto inedito, privo di uno storico sul suo gradimento. «Gran parte dei brand fanno già parte della nostra quotidianità, quindi inserirli in un contesto noto, che vediamo tutti i giorni, è una mossa strategica. Una proposta ex novo potrebbe invece implicare molta fatica per nulla, a meno di non avere un’idea geniale e grandi budget», concorda Erik Rollini, «l’armonia e l’audience sono gli elementi che possono ridimensionare l’efficacia del BE».

IL PRODUCT PLACEMENT 
Da qui, dunque, la preferenza per il più sicuro product placement: «Le produzioni originali di BE sono prevalenti sui social, dove i costi sono bassi, mentre in tv si prediligono le integrazioni: il rapporto è circa 70 – 30 sui social ed esattamente l’opposto sullo schermo tv». Per la verità, di recente anche il product placement ha iniziato a mettere in conto qualche imprevisto, vista una certa flessione negli ascolti: la maggior parte degli show oggi combatte più per mantenere gli spettatori, che per guadagnar- ne di nuovi. Se però si tende a prediligere il product placement, è anche per ragioni strutturali: il palinsesto, per lo meno quello generalista, può accogliere fino a un numero limitato di proposte aggiuntive. Gli inserimenti invece possono potenzialmente coprire l’intera messa in onda. Sul tavolo, dunque, a rallentare l’utilizzo del BE ci sono ragioni di disponibilità (limitata) di spazi, tempistiche più lunghe di realizzazione e in- cognite per quel che concerne la platea effettivamente intercettata. Tuttavia, se corso, tale rischio può ripagare molto bene: come fanno notare più di un addetto ai lavori, in caso di successo il rapporto che si instaura tra broadcaster e inserzionista diventa molto più profondo di quello che si crea nel pianificare una campagna tabellare. Con il BE si lavora e si rischia insieme su idee comuni, perfino coraggiose dal punto di vista della comunicazione: da lavorativo il rapporto si trasforma inevitabilmente in un patto di fiducia. Ergo, resta nel tempo, è più solido e fidelizzato. «Il Brand Entertainment consente inoltre un maggior coraggio in termini di comunicazione», aggiunge Vitiello, «permette infatti di misurarsi con storie meno lineari, impossibili da proporre con uno spot, e soprattutto consente di prendere posizione su determinate tematiche sociali». (di Francesca D’Angela)

L’articolo completo è stato pubblicato su Tivù di giugno 2024, scarica il numero o abbonati qui 

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