La tv può ancora fare la differenza

L'editoriale del numero di MAGGIO di Tivù

Lo scorso numero di Tivù, nel cui editoriale ci interrogavamo sulla lungimiranza di RaiPlay nell’aver acquistato e reso disponibile la serie spagnola Dieci Capodanni, non era ancora uscito, che già a livello internazionale e in Inghilterra ci si interrogava su un’altra serie fenomeno, Adolescence di Netflix. La portata del dibattito ovviamente è stata differente, ma con un percorso razionale pressoché identico. Per la cronaca, e per chi si fosse perso il precedente editoriale, il titolo recitava “Uscire fuori dal seminato” e il senso era di invitare i produttori di contenuti a praticare lo scomodo approccio nell’assumersi dei rischi, nel racconto audiovisivo come nello stile.

Invece, l’affollato dibattito sorto intorno alla serie della Warp Films ha portato il livello della discussione a uno step successivo, che è quello relativo a un titolo che non solo è riuscito a esprimere un interessante e originale racconto di finzione, ma soprattutto di essere stato in grado di produrre una narrazione del reale capace di sollevare il velo su un tema particolarmente ostico, doloroso e attuale. E a farlo in questo caso è stata la televisione, o – per meglio dire – una serie televisiva. Il che dovrebbe farci riflettere sul fatto che la tv, al netto delle sue mille sfaccettature di distribuzione, può ancora essere capace di fare la differenza. Perché più della decrescente carta stampata, più degli “elitari” libri, meglio della dispersiva e fuorviante rete, perché trasversale per estrazione socio-culturale ed economica, e per età e alfabetizzazione, la televisione (la buona televisione) ha ancora la forza e la capacità di dettare la linea della discussione generale, di far dibattere e riflettere addirittura la politica e la società tutta, e non sullo scandalo dell’ultimo momento, bensì su un’emergenza generazionale della quale mancava una ricostruzione così magistrale e accurata, così emozionante e chiara come in Adolescence.

Il dibattito generato da Adolescence dovrebbe indurre a un ripensamento gli editori tv sul fatto che non tutto è ancora stato detto, come invece si vuole lasciar credere o si voglia credere. La realtà che viviamo è diventata talmente complessa che ci sono universi che attendono di essere esplorati e raccontati con coraggio e originalità, e questo vale certo per la dimensione della serialità, ma anche per il documentario e in somma misura per l’informazione. Adolescence insegna che gli standard e gli algoritmi sono la morte dell’attenzione del pubblico attivo: se i contenuti si mantengono sempre su una certa soglia prestabilita, la platea li subisce, non si innesca un meccanismo di risposta e di riessione. Un pubblico attento e coinvolto è il miglior tipo di referente per gli editori, perché è quello motivato a pagare per un abbonamento e, paradossalmente, è anche quello forse più attento a un certo tipo di messaggi pubblicitari. Non si tratta di produrre sempre e solo capolavori, ma di fare sempre un po’ meglio di quanto si è fatto (seppur bene) in precedenza.

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