Mentre cresce il numero dei governi europei che in un modo o nell’altro si dicono pronti a reagire alle sparate protezionistiche del presidente Trump ai danni delle produzioni audiovisive importate negli States (cfr. pag. 6); di giorno in giorno aumentano le iniziative delle associazioni di categoria che intendono, non si sa con quali risultati, stigmatizzare l’avvento (reale o minacciato che sia) dei dazi. E mentre il mondo si interroga e si distrae inseguendo tali chimeriche minacce, l’associazione dei produttori del Regno Unito, Pact, sforna una fosca analisi del mercato inglese che – con i dovuti distinguo – parrebbe destinata a fotografare (in peggio, vista la maggiore vulnerabilità) anche il mercato tricolore.
Cosa dicono in sostanza gli inglesi? Il rapporto sostiene che dietro la patina di fiction premium e successi da streaming si nasconde un mercato sempre più diviso e in tensione, dove le piccole e medie imprese creative lottano per sopravvivere (tema affrontato anche dal Culture, Media and Sport Committee, cfr. Tivù maggio pag. 10) . E tutto questo accade perché le emittenti, sotto pressione per competere con gli streamer, ma senza avere a disposizione per i loro servizi digitali risorse paragonabili a quelle dei giganti globali, si sono orientate verso un modello che privilegia poche produzioni di alto pro lo, il che le porta a concentrare i loro investimenti verso un gruppo ristretto di case di produzione consolidate. Come dire: vige e vince la regola del più forte, e chi non entra nell’orbita di questi mega agglomerati è destinato a dissolversi. Con quali conseguenze? In Pact rilevano che l’innalzamento delle barriere d’ingresso per le nuove realtà riduce la possibilità di rinnovamento del settore, e che tale approccio taglierebbe fuori le sperimentazioni, i nuovi talenti, e soprattutto limiterebbe l’assunzione di rischi creativi. Il risultato è una griglia di programmazione più omogenea e prevedibile, segnata da reboot e franchise consolidati. Con meno opportunità e maggiore avversione al rischio, le produzioni tenderebbero a favorire team già affermati e noti, frenando il ricambio generazionale, l’inclusione di voci nuove e la rappresentazione plurale delle comunità.
Insomma, si registra un grande rimescolamento di carte, solo che a darle sono sempre gli stessi… Ma quanti di questi allarmi sono traslabili al mercato italiano? I produttori di Pact si dicono molto preoccupati della minacciata fine del tanto decantato “modello UK” e chiedono una ridefinizione degli obblighi di programmazione e un dialogo concreto tra broadcaster, streamer, produttori e istituzioni. E i produttori di APA, nonché i dirigenti del servizio pubblico a cui, volenti o nolenti, è demandato il ruolo di fare da volano dell’intera industria audiovisiva che idea hanno oggi del futuro che attende il “modello Italia”?
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