Tivù ripropone di seguito una parte dell’intervista a Rosario Fiorello, pubblicata sul numero di giugno
Trova che il rapporto col pubblico sia cambiato nel tempo?
Non nella sostanza: sono cresciuto alla scuola dei vecchi villaggi turistici, in cui la prima regola in assoluto era curare il contatto con i clienti. A quei tempi la parola contatto era un concetto moderno, che si traduceva nel socializzare con le persone, quello che per certi versi si pensa di fare oggi attraverso i social, ma in modo virtuale. Che è una socializzazione per modo di dire… Mi ricordo che facevo il giro dei tavoli e interagivo con i commensali chiedendo loro di dove fossero, quando erano arrivati, se si stessero divertendo e li invitavo allo spettacolo serale. Credo che il gusto per il contatto mi sia rimasto.
E questo “gusto” quanto è determinante nella costruzione dei suoi programmi?
È essenziale: ho avuto grandi difficoltà nei programmi senza pubblico. Perciò l’ho portato anche in contesti insoliti, Ancora oggi faccio fatica a rimanere da solo con una telecamera, ho bisogno di compagnia per poterla affrontare, perché solo la percezione del pubblico intorno a me mi fa capire se sto andando nella giusta direzione.
Analizzando la sua carriera, si osserva come fino al 2001 abbia avuto una resa discontinua. Dopo di che, da Stasera pago io in poi, si è stabilizzata sempre ad alti livelli. Le è successo come a Franco Battiato che, dopo La Voce del padrone, ha detto di aver compreso quali fossero i meccanismi di base per poter replicare un prodotto di successo?
Quella data coincide col mio passaggio da Mediaset in Rai. Quand’ero in Mediaset nessuno aveva capito dove piazzarmi o cosa farmi fare, e io non avevo la forza di impormi, quindi mi accontentavo. L’improvviso successo con Karaoke è stata una di quelle cose che ti esplodono in mano e ti rimangono addosso: dopo c’è sempre qualche nostalgico che vorrebbe vederti fare sempre quella cosa lì. Ma in quel programma io non facevo nulla, mi limitavo a far cantare le persone nelle piazze. Solo che una sera mi sono ritrovato a dover intrattenere la platea durante un inconveniente tecnico della registrazione del Festivalbar, e vedendomi all’opera Bibi Ballandi venne da me a dirmi che non era possibile che fossi capace di tanto, e che a telecamere accese invece mi limitassi a condurre. Fu così che approdai al varietà del sabato sera su Rai1, e arrivarono i “miei” programmi.
Programmi che lei però a un certo punto non ha più voluto fare: niente prime serate, niente varietà, niente sabato sera…
Perché sono cambiati i tempi. Un varietà non può più reggere un prime time di tre ore e mezzo. Per poter tenere quelle durate, il pubblico ha bisogno di seguire una struttura che presenti un meccanismo in evoluzione, vedi le esibizioni, la gara, i giudici…
Anche di recente ha sostenuto che per un programma l’audience non è tutto. Questo atteggiamento è una conquista o un lusso che può permettersi grazie al fatto che comunque riesce a portare a casa i numeri?
Per certi versi è una conquista, ma i numeri sono importanti, anche se non l’unica cosa importante. D’altra parte, lavorando per il servizio pubblico è un lusso che fino a un certo punto possiamo permetterci. E lo dico avendo raggiunto audience che neanche ci sognavamo.
Una curiosità: nella sigla, la prima cosa che si legge è “da un’idea di Rosario Fiorello”. È ispirato a “da un’idea di Stefano Accorsi” o sono io a farmi dei film?
No… stavolta non è una battuta…ma ad averci pensato prima, me la sarei giocata…(ride).
(di Linda Parrinello)
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