Secondo Virginia Mouseler, Ceo di The Wit, la parola d’ordine per la televisione non è innovazione, ma rinnovamento costante di formule ben collaudate. Da qui, infatti, passa l’evoluzione dei contenuti e, per causa o effetto, quella dei pubblici
Tutto quello che è nuovo non è necessariamente innovativo: frase lapalissiana,certo, che assume però tutto un altro significato se a pronunciarla è Virginia Mouseler, Ceo di The Wit, società che si occupa di fornire a produttori, broadcaster, distributori e advertiser tutte le informazioni in termini di contenuti, programmi e progetti, delle televisioni globali. Mouseler quasi rispedisce al mittente il termine innovazione: «non è lo scopo principale del mercato tv». È più, leggendo le sue parole, una questione di opportunità: proprio dove i palinsesti offrono maggiori slot da coprire (leggi, durate dei programmi ridotte rispetto a certi prime time e day time italiani) diventa “statisticamente” più facile provare a riempirli con novità, che potrebbero innescare – appunto – un’innovazione nei gusti e nel racconto. Anche perché, ricorda, non è detto che il pubblico sia così ricettivo. Da qui, l’annosa domanda: fino a che punto vale la pena innovare?
D: Per prima cosa, qual è la de finizione di “innovazione” secondo The Wit?
Il nostro lavoro consiste nel ricercare tutto quello che è nuovo, ma non tutto quello che è nuovo è necessariamente innovativo. Non dobbiamo pensare che il mercato televisivo riguardi l’innovazione, non è quello il suo scopo principale. Consiste invece nel rinnovare costantemente formule collaudate per adattarsi ai gusti degli spettatori che sono in continua evoluzione. Gli ascolti quotidiani provano che il gusto degli utenti non cambia così tanto nel tempo. Ecco perché il più delle volte non definiremmo come innovativi gli show che arrivano sul mercato: sono portatori invece di nuovi punti di vista, versioni inedite, twist. L’innovazione arriva in piccoli tocchi. È più facile invece parlare di innovazione da un punto di vista tecnico o tecnologico e quindi ragionando sul modo in cui uno show è realizzato, visto o distribuito.
D: C’è una differenza tra l’approccio della tv lineare e quello delle piattaforme streaming?
Qualche anno fa avremmo potuto pensare che le piattaforme streaming fossero più innovative rispetto alla televisione “classica”: abbiamo visto lanciare tonnellate di nuovi titoli, molti di più rispetto alla tv lineare, che coprivano tutti i temi, storie, target group e nicchie. Alla fine, però, la loro innovazione è stata più da un punto di vista tecnico che in termini di contenuti: mi riferisco per esempio alla fruizione on demand o alla possibilità di vedere tutti gli episodi di una serie in una sola volta (il binge watching, ndr.). Gli streamer sono stati capaci di cambiare talvolta ritmo e narrazione. Ora però che anche i canali lineari si sono adattati ai nuovi soggetti in campo, possiamo dire che oggi streamer e tv lineari offrono sempre più lo stesso tipo di programmi, anzi talvolta proprio gli stessi.
D: Spesso si dice che le audience vogliano sentirsi rassicurate dal contenuto che guardano; ecco perché quando si pensa a un nuovo programma chi produce mette insieme elementi che hanno già dimostrato di funzionare (struttura, ospiti…). Alla luce di quanto detto finora, parliamo di innovazione o riciclo?
Non è innovazione e nemmeno riciclo: è televisione! Fare televisione significa lanciare nuovi show creati con quello che gli spettatori vogliono vedere aggiungendo un ulteriore livello a quanto potrebbero voler vedere! Non è facile avere successo, è rischioso, ed ecco perché vedi palinsesti pieni di programmi che vanno avanti da diversi anni e stagioni. L’innovazione non è la parola d’ordine della televisione. Le persone non vogliono vedere programmi innovativi, ma bei programmi, che siano o meno innovativi! (a cura di Eliana Corti)
L’intervista completa è stato pubblicata su Tivù di marzo 2024, scarica il numero o abbonati qui
© RIPRODUZIONE RISERVATAIn caso di citazione si prega di citare e linkare tivubiz.it